Al tavolo prefettizio del 26/11/2019 era presente il Presidente della Provincia di Monza e Brianza in persona, il leghista Luca Santambrogio.
Per corroborare una scelta decisa forniamo al Presidente della Provincia qualche osservazione finale:
Asfalti Brianza : emissioni anomale con abbondanti e annose segnalazioni , valutazioni
inesistenti, monitoraggi inadegati
Questo impianto non ha avuto al
momento della sua collocazione:
1. una
valutazione di impatto ambientale che ne dimostrasse la compatibilità con il
sito in cui collocato
2. una
istruttoria che ai sensi della normativa sulle industrie insalubri di prima
classe ne verificasse la compatibilità sanitaria
3. mancanza
di controlli sistematici in grado di fornire risposte certe alle
numerose segnalazioni dei cittadini che subiscono i disagi prodotti
dall’impianto
4. monitoraggi inadeguati da parte degli enti di
controllo.
5. un atteggiamento, da parte delle Amministrazioni non trasparente e soprattutto non coinvolgente i cittadini nell'affrontare la questione dei disagi manifestati.
e qualche indicazione normativa
1) IL FRESATO E' UN RIFIUTO
IL FRESATO È RIFIUTO
La Corte di
Cassazione [NOTA 5], con sentenza n. 37168
del 09/06/2016 ha ribadito che il fresato è
classificabile come rifiuto (CER 17.03.01 oppure 17.03.02, il primo pericoloso
il secondo solo speciale). Nel caso specifico non una delle condizioni era stata
soddisfatta, in particolare: la società condannata svolgeva un’attività che
aveva anche come oggetto la produzione del fresato, il concreto riutilizzo del
fresato non era certo, il fresato era rilavorato nello stabilimento della
società ed infine il processo produttivo non garantiva la tutela
dell’ambiente e della salute umana.
La sentenza della Cassazione in commento
richiama un’altra pronuncia (sentenza
Cassazione n. 46227 del 23 ottobre 2013) che ha
escluso anche la classificazione dei materiali bituminosi, provenienti da
escavazione o demolizione stradale, come “terre e rocce da scavo” in quanto
queste ultime sono costituite da materiali naturali, mentre i materiali bituminosi provengono da lavorazione del
petrolio e presentano un evidente potere di contaminazione.
Ora la documentazione presentata in sede sia
di istanza di AUA che di rilascio della stessa non ha dimostrato assolutamente
che il suddetto fresato possa essere definito come sottoprodotto.
NOTA 5] E’ ormai pacifico
che I materiali bituminosi provenienti da lavori di manutenzione stradale siano
da considerarsi rifiuti speciali a tutti gli effetti e non sottoprodotti né
terre o rocce da scavo.
La
Corte di Appello di Firenze condannava il legale rappresentante di una società
ad una rilevante pena pecuniaria per violazione dell’art. 256 d.lgs. 152/2006
(attività di gestione di rifiuti non autorizzata).
La
linea di difesa seguita dalla società sosteneva che la fresa d’asfalto, materiale
oggetto delle contestazioni, era da considerarsi come sottoprodotto,
diversamente da quanto sostenuto dall’accusa che riteneva tale materiale, a
tutti gli effetti, rifiuto speciale. Inevitabile il ricorso in Cassazione
contro la sentenza di condanna.
La
Corte di Cassazione, con sentenza n. 37168 del 09/06/2016, rigettava il ricorso
ritenendolo infondato.
Le
argomentazioni della sentenza richiamano il concetto stesso di sottoprodotto,
la cui definizione è riportata dall’art. 184 bis del d.lgs. 152/2006.
Tale
articolo stabilisce che è un sottoprodotto e non un rifiuto,
qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
a)
la sostanza o l'oggetto è originato da un processo di produzione, di cui
costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di
tale sostanza od oggetto; b) è certo che la sostanza o l'oggetto sarà
utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o
di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o
l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento
diverso dalla normale pratica industriale; d) l'ulteriore utilizzo è legale,
ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i
requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e
dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la
salute umana.
Nel
caso specifico non una delle condizioni era stata soddisfatta, in particolare:
la società condannata svolgeva un’attività che aveva anche come oggetto la
produzione del fresato, il concreto riutilizzo del fresato non era certo, il
fresato era rilavorato nello stabilimento della società ed infine il processo
produttivo non garantiva la tutela dell’ambiente e della salute umana.
Correttamente la Corte di Appello aveva sancito che il fresato d’asfalto andava
considerato “rifiuto speciale” e che il comportamento della società aveva violato
il succitato art. 256 d.lgs. 152/2006 ed in particolare il comma 1 lett. a), il
comma 2 e il comma 4.
La
sentenza della Cassazione in commento richiama un’altra pronuncia (sentenza n.
46227 del 23 ottobre 2013) che ha escluso anche la classificazione dei
materiali bituminosi, provenienti da escavazione o demolizione stradale, come
“terre e rocce da scavo” in quanto queste ultime sono costituite da materiali
naturali, mentre i materiali bituminosi provengono da lavorazione del petrolio
e presentano un evidente potere di contaminazione.
Entrambe
le sentenze eliminano ogni dubbio sulla natura di rifiuto speciale del fresato
di asfalto proveniente da lavori di manutenzione straordinaria.
In
realtà basta leggere con un minimo di attenzione le condizioni di cui all’art
184 bis del DLvo 152/06 per escludere questa possibilità.
Infatti
l’art. 2, c. 1, lett. b), definisce residuo di produzione “ogni materiale o
sostanza che non è deliberatamente prodotto in un processo di produzione e che
può essere o non essere un rifiuto”, con ciò confermando che il
sottoprodotto deve scaturire da un processo produttivo (con conseguente
esclusione dei residui di consumo o, per esempio, del fresato
d’asfalto).
2) NORMATIVA SPECIFICA PER LE AZIENDE INSALUBRI DI PRIMA CLASSE (COME ASFALTI BRIANZA)
Ora è noto come il T.U.LL.SS. art. 216 comma 2 reciti: “La prima classe comprende quelle
che debbono essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni;...”
Il comma 5 articolo 216 del T.U.LL.SS.
recita: “Una industria o manifattura la quale sia
inserita nella prima classe, può essere permessa nell'abitato, quante volte
l'industriale che l'esercita provi che, per l'introduzione di nuovi metodi o
speciali cautele, il suo esercizio non reca nocumento alla salute del vicinato.”
Il comma 1 articolo 217
del T.U.LL.SS. recita: “Quando vapori, gas o altre esalazioni, scoli
di acque, rifiuti solidi o liquidi provenienti da manifatture o fabbriche,
possono riuscire di pericolo o di danno per la salute pubblica, il podestà
prescrive le norme da applicare per prevenire o impedire il danno o il pericolo
e si assicura della loro esecuzione ed efficienza.”
A sua volta la Circolare
del 19 marzo 1982, n. 19, prot. n. 403/8.2/459, Ministero della Sanità -
Direzione Generale dei Servizi di Igiene Pubblica Div. III, pag. 2 u.c. secondo
cui: “…la classificazione delle lavorazioni insalubri non può e non deve
rimanere fine a sé stessa esaurendosi in un mero automatismo burocratico” ma
occorre: “… un esame specifico e puntuale (il quale) non può essere
realisticamente effettuato - in dettaglio - che dall’autorità locale… È
evidente che qualora da tale esame risulti che le cause d’insalubrità
potenziale, che hanno determinato l’inclusione dell’attività nella Prima classe
dell’elenco, sono state eliminate o quantomeno ridotte in termini accettabili
si applica il caso previsto dal 5° comma dell’art. 216 T.U.LL.SS.”.
E’ altresì noto che la normativa sulle
industrie insalubri sopra esposta debba essere inserita nella pianificazione
comunale come peraltro confermato da una recente sentenza del Consiglio di Stato (sentenza 2751/2014) secondo la quale se è vero che normativa nazionale
sulle industrie insalubri (articolo 216 del T.U. n.1265/1934) non prevede un
divieto assoluto di collocazione di queste negli abitati, non è precluso né illogico fissare con norme regolamentari parametri
più rigorosi di quelli rinvenibili nell’art.216 del T.U.LL.SS. n.1265/1934 al fine di conseguire una più intensa tutela della
salute pubblica (vedi anche Cons. Stato, V
n.338/1996).
In particolare la sentenza del Consiglio di Stato
2751/2014 sopra citata
afferma autorevolmente:
1. l’opportunità di una diversa ubicazione se l’impianto è
sotto i 500 metri dagli abitati
2. la possibilità di ricollocare l’impianto se non corrisponde
ad un adeguato livello occupazionale comparabile con i rischi ambientali
sanitari e i danni economici alle abitazioni e ai residenti
3. la possibilità di utilizzare le norme tecniche attuative di
un piano urbanistico comunale per stabilire distanze di sicurezza
adeguate (la sentenza fa riferimento a distanze sopra i 100 metri) per le
industrie insalubri di 1^ classe rispetto ai confini di zone
residenziali o da preesistenti edifici destinati a residenza
Sempre nella direzione di
definire poteri e ruoli di Sindaci e Comuni nella pianificazione della
localizzazione delle industrie insalubri di prima classe :
1.Consiglio di Stato
Sez. III, n. 4687, del 24 settembre 2013: “Legittimità
ordine di chiusura di attività pericolosa per la salute. Spetta al sindaco,
all’uopo ausiliato dall’unità sanitaria locale, la valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni
provenienti dalle industrie classificate “insalubri”, e l’esercizio di tale
potestà può avvenire in qualsiasi
tempo e, quindi, anche in epoca successiva
all'attivazione dell’impianto industriale e può estrinsecarsi con l’adozione in
via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o
l’evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità,
per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti e ciò per contemperare le esigenze
di pubblico interesse con quelle dell'attività produttiva “
2. Consiglio di Stato, Sez, V, n. 6264, del 27 dicembre 2013: “Legittimità ordinanza sindacale d’immediata chiusura
di impianto e attività pericolosa per la salute. Spetta al Sindaco,
all'uopo ausiliato dalla struttura sanitaria competente, il cui parere tecnico
ha funzione consultiva ed endoprocedimentale, la valutazione della
tollerabilità, o meno, delle lavorazioni provenienti dalle industrie cosiddette
"insalubri", l'esercizio della cui potestà potendo avvenire in ogni
tempo e potendo esplicarsi mediante l'adozione, in via cautelare, di interventi
finalizzati ad impedire la continuazione o l'evolversi di attività aventi
carattere di pericolosità”.
Risulta che
l’Amministrazione Comunale competente nel caso in esame non abbia esercitato i
poteri riconosciuti al Sindaco alla Giunta e alla struttura dirigenziale da detta
normativa anche in contraddizione con quanto affermato nel Piano Strutturale
(sopra riportato).
Ne tale comportamento omissivo può essere
giustificato dal rilascio delle autorizzazioni nel tempo tanto meno per l’AUA del 2017. Infatti il DPR 133/3/2013 n. 59 (Regolamento recante la disciplina dell'autorizzazione unica ambientale) all’articolo 3 elenca le autorizzazioni settoriali
assorbite dall’AUA:
a) autorizzazione agli
scarichi di cui al capo II del titolo IV della sezione II della Parte
terza del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152;
b) comunicazione
preventiva di cui all'articolo 112 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.
152, per l'utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento, delle acque
di vegetazione dei frantoi oleari e delle acque reflue provenienti dalle
aziende ivi previste;
c) autorizzazione alle
emissioni in atmosfera per gli stabilimenti di cui all'articolo 269 del decreto
legislativo 3 aprile 2006, n. 152;
d) autorizzazione generale
di cui all'articolo 272 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152;
e) comunicazione o nulla
osta di cui all'articolo 8, commi 4 o comma 6, della legge 26 ottobre 1995, n.
447;
f) autorizzazione
all'utilizzo dei fanghi derivanti dal processo di depurazione in agricoltura di
cui all'articolo 9 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99;
g) comunicazioni in
materia di rifiuti di cui agli articoli 215 e 216 del decreto legislativo
3 aprile 2006, n. 152.
Risulta chiaramente dal suddetto elenco come
la lettera della legge non faccia alcun riferimento ai poteri del
Sindaco come Autorità Sanitaria ai sensi dell’articolo più volte citato
sopra. Quindi restano
pienamente i poteri del Sindaco in materia di industrie insalubri anche dopo il
rilascio della AUA!
Peraltro la stessa
Regione Toscana al punto 8 dell’Autorizzazione Unica Ambientale del 2017
precedentemente citata decreta “di fare salve tutte le altre disposizioni
legislative, normative e regolamentari comunque applicabili all’attività
autorizzata con il presente atto ed in particolare le disposizioni in materia
igienico-sanitaria, edilizio-urbanistica, prevenzione incendi ed infortuni,
precisando pertanto che la presente autorizzazione non esonera dalla necessità
di conseguimento di altre autorizzazioni o provvedimenti comunque denominati
non ricompresi in AUA, previsti dalla normativa vigente per l'esercizio della
attività di cui trattasi;”
La suddetta normativa avrebbe quindi richiesto
di valutare sin dalla installazione dell’impianto e poi dalle successive
modifiche la compatibilità sanitaria dello stesso , questo non è avvenuto
attraverso un gioco di rimpallo tra i vari enti come si dimostra di seguito.
3) SANZIONI AMMINISTARTIVE DA APPLICARE IN CASO DI VIOLAZIONE DELLE PRESCRIZIONI AUTORIZZATIVE
OMISSIONE DA PARTE DELLE
AUTORITÀ COMPETENTI NELL’APPLICARE LE SANZIONI AMMINISTRATIVE IN CASO DI
VIOLAZIONE DELLE PRESCRIZIONI AUTORIZZATORIE
L’Autorizzazione unica
ambientale assorbe tra le altre la autorizzazione alle emissioni in atmosfera
per gli stabilimenti di cui all'articolo 269 del decreto legislativo 3 aprile
2006, n. 152 (lettera c) comma 1 articolo 3 Dpr
59/2013). Quindi sotto il profilo istruttorio ma anche sanzionatorio si
applicano le procedure e le sanzioni previste in relazione a detta
autorizzazione a emissioni aeriformi.
In particolare il comma 4
articolo 268 del DLgs 152/2006 recita:
“4. L'autorizzazione
stabilisce, ai sensi degli articoli 270 e 271: a) per le emissioni che
risultano tecnicamente convogliabili, le modalità di captazione e di
convogliamento;
b) per le emissioni convogliate o di cui è stato disposto il convogliamento, i
valori limite di emissione, le prescrizioni, i metodi di campionamento e di
analisi, i criteri per la valutazione della conformità dei valori misurati ai
valori limite e la periodicità dei controlli di competenza del gestore, la
quota dei punti di emissione individuata tenuto conto delle relative condizioni
tecnico-economiche, il minimo tecnico per gli impianti soggetti a tale
condizione e le portate di progetto tali da consentire che le emissioni siano
diluite solo nella misura inevitabile dal punto di vista tecnologico e
dell'esercizio; devono essere specificamente indicate le sostanze a cui si
applicano i valori limite di emissione, le prescrizioni ed i relativi
controlli; c) per le emissioni diffuse, apposite prescrizioni finalizzate ad
assicurarne il contenimento.”
Sotto il profilo delle
misure amministrative in caso di violazioni delle prescrizioni agli impianti
assoggettati ad AUA si applica quindi anche l’articolo 278 del DLgs 152/2006
sui poteri di ordinanza che recita: “1. In caso di inosservanza delle prescrizioni contenute
nell'autorizzazione, ferma restando l'applicazione delle sanzioni di cui
all'articolo 279 e delle misure cautelari disposte dall'autorità giudiziaria,
l'autorità competente procede, secondo la gravità dell'infrazione:
a) alla diffida, con l'assegnazione di un termine entro
il quale le irregolarità devono essere eliminate;
b) alla diffida ed alla contestuale temporanea sospensione dell'autorizzazione
con riferimento agli impianti e alle attività per i quali vi è stata violazione
delle prescrizioni autorizzative, ove si manifestino situazioni di pericolo per
la salute o per l'ambiente;
c) alla revoca dell'autorizzazione con riferimento agli impianti e alle
attività per i quali vi è stata violazione delle prescrizioni autorizzative, in
caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida o qualora
la reiterata inosservanza delle prescrizioni contenute nell'autorizzazione
determini situazioni di pericolo o di danno per la salute o per l'ambiente.”
Peraltro lo stesso comma 5 articolo 5 Dpr 5972013 (regolamento che disciplina l’AUA applicata anche all’impianto in
oggetto) recita: “5. L'autorità competente può comunque imporre il rinnovo
dell'autorizzazione, o la revisione delle prescrizioni contenute
nell'autorizzazione stessa, prima della scadenza quando:
a) le prescrizioni stabilite nella stessa impediscano o
pregiudichino il conseguimento degli obiettivi di qualità ambientale stabiliti
dagli strumenti di pianificazione e programmazione di settore;
b) nuove disposizioni legislative comunitarie, statali o regionali lo esigono.”
4) A PROPOSITO DI EMISSIONI ODORIGENE
SIGNIFICATIVITÀ SANITARIA
DELLE EMISSIONI ODORIGE
Le emissioni odorigene protratte nel tempo, a prescindere
dal rispetto dei limiti di legge dei valori degli inquinanti emessi, possono
produrre in sé danni alla salute.
Si veda in particolare Visto quanto afferma Arpat nel suo
bollettino informativo Arpat news del 11/11/2011 n.
217: “la percezione
del disagio è esclusivamente di natura personale e può anche diventare una
componente di sofferenza psicologica. Una
possibile riflessione generale, potrebbe portare a pensare che una prolungata
esposizione ad un disturbo, può provocare una sensibilizzazione nella popolazione
esposta, generando anche importanti stati d'ansia, che a lungo andare, scalzano
il problema stesso, diventando la principale fonte di disturbo. Il
tempestivo intervento è quindi da auspicare per contenere questa
possibile risposta ansiogena, limitando la deriva e contendo così il
problema all'origine."
La stessa Associazione
Italiana Bitume Asfalto e Autostrade (SITEB) in una recente pubblicazione “Conglomerati
bituminosi : Caratterizzazione e contenimento delle emissioni odorigene e
atmosferiche”ha individuato specificità precise in relazione alle emissioni
odorigene distinguendole da quelle diffuse e da particolato. In particolare la
pubblicazione individua una serie di prescrizioni per limitare o addirittura
eliminare le emissioni odorigene nelle attività di produzione dei conglomerati
bituminosi, prescrizioni e cautele non prese in considerazione dalla nuova AUA
RIMOZIONE DELLA NORMATIVA E
GIURISPRUDENZA CHE IMPONGONO DI INTERVENIRE PER IMPORRE PRESCRIZIONI AL FINE DI
LIMITARE LE EMISSIONI ODORIGENE
La lettera a) comma 1 articolo
268 del D.Lgs. 152/2006 così definisce l’inquinamento
atmosferico “a) inquinamento atmosferico:
ogni modificazione dell'aria atmosferica, dovuta all'introduzione nella stessa
di una o di più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da ledere o da
costituire un pericolo per la salute umana o per la qualità dell'ambiente
oppure tali da ledere i beni materiali o compromettere gli usi legittimi
dell'ambiente;”. Quindi non vi è dubbio che le emissioni
odorigene rientrano in tale definizione in quanto possono costituire pericolo
per la salute o per l’ambiente e/o compromettere gli usi legittimi
dell’ambiente stesso;
Alla luce della sopra
citata normativa nelle autorizzazioni a nuove attività, che possono
potenzialmente produrre emissioni odorigene, si possono inserire limiti alle
emissioni odorigene (sia direttamente da parte del Comune se di competenza
comunale o su richiesta del Comune) all’interno del procedimento di revisione
delle autorizzazioni vigenti anche all’impianto in oggetto;
In materia è significativa
la sentenza della Cassazione sezione penale n. 36905 del 14/9/2015 che
in materia di emissioni odorigene e della loro rilevanza penale ha affermato i
seguenti principi:
1. Costituisce principio consolidato
di questa Suprema Corte (che va qui ribadito) che la contravvenzione di cui all'art. 674 cod. pen. è
reato configurabile in presenza anche di "molestie olfattive"
promananti da impianto munito di autorizzazione, in quanto non esiste una
normativa statale che prevede disposizioni specifiche e valori limite in
materia di odori, con conseguente individuazione del criterio della
"stretta tollerabilità" quale
parametro di legalità dell'emissione, attesa l'inidoneità ad approntare una
protezione adeguata all'ambiente ed alla salute umana di quello della
"normale tollerabilità";
2. Per la
realizzazione del reato ex articolo 674 del Codice Penale è sufficiente
l'apprezzamento diretto delle conseguenze moleste da parte anche solo di alcune
persone, dalla cui testimonianza il giudice può logicamente trarre elementi per
ritenere l'oggettiva sussistenza del reato, a prescindere dal fatto che tutte
le persone siano state interessate o meno dallo stesso fenomeno o che alcune
non l'abbiano percepito affatto. Ne è necessario un accertamento tecnico;
3. Laddove trattandosi di odori manchi la
possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l'intensità
delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non
tollerabilità delle emissioni stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni dei
testi, soprattutto se si tratta di persone a
diretta conoscenza dei fatti, come i vicini, o particolarmente qualificate,
come gli agenti di polizia e gli organi di controllo della USL;
4. Ove risulti
l'intollerabilità, non rileva, al fine di escludere l'elemento soggettivo del
reato, l'eventuale adozione di tecnologie dirette a limitare le emissioni,
essendo evidente che non sono state idonee o sufficienti ad eliminare l'evento
che la normativa intende evitare e sanziona;
5. La
definizione di odori “normali”, quali quelli provenienti da un impianto di
rifiuti, affermata dai testimoni favorevole alla ditta condannata, sottende
questa sì un giudizio soggettivo e non si pone in logico contrasto con il fatto
che un elevato numero di altre persone fosse concretamente esposta a esalazioni
nauseabonde;
6. Qualsiasi
monitoraggio delle emissioni odorigene non può fondarsi su modelli astratti ma
sull’applicazione dei modelli in uso alla concreta realtà;
A sua volta il Consiglio di Stato (sentenza n. 4588
del 10/9/2014) ha affermato il principio di precauzione per cui
a prescindere dal rispetto dei limiti inquinanti previsti dalla normativa sulle
emissioni atmosferiche, se, sulla base di adeguata documentazione scientifica,
si dimostra persistere un probabile rischio sanitario per i cittadini
residenti, l’autorità competente può negare l’autorizzazione o revocarla in
fase di revisione/adeguamento od imporre prescrizioni che eliminino il problema
delle emissioni odorigene.
Sul rapporto tra principio di precauzione e possibilità di non
rilasciare o addirittura di revocare un autorizzazione da parte delle autorità competenti, si
veda TAR Piemonte Sez. I n. 99 del 22 gennaio 2018. Secondo questa
sentenza: Il principio di precauzione implica
l’esistenza di un rischio potenziale per la salute e per l’ambiente, ma non
richiede l’esistenza di evidenze scientifiche consolidate sul collegamento tra
la causa, fonte del rischio, e l’effetto negativo. La sua applicazione comporta dunque che, ogni qual
volta non vi sia certezza dei rischi di un'attività potenzialmente pericolosa,
l'azione delle Autorità competenti deve tradursi in una prevenzione anticipata
rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui
i danni siano poco conosciuti, o solo potenziali. La valutazione di tali
rischi deve essere seria e prudenziale, condotta alla stregua dell'attuale
stato delle conoscenze scientifiche disponibili, e può anche condurre a non
autorizzare l’attività pericolosa nel caso in cui, anche utilizzando le
migliori tecniche disponibili, non sia possibile scongiurare con ragionevole
certezza l’insorgere di danni per l’ambiente e per la salute umana. Questo,
specialmente davanti all’evidente sproporzione tra l’utilità (pubblica e
privata) derivante dall’attività pericolosa (nella specie, la possibilità di
conferire rifiuti pericolosi in un nuovo sito di discarica) e gli effetti
potenzialmente disastrosi derivanti dall’ipotetico realizzarsi dei rischi ad
essa sottesi (nella specie, la contaminazione di sistemi acquiferi profondi, in
un’area in cui sono presenti pozzi a servizio dei Comuni).”
Quindi anche alla luce della suddetta normativa e
giurisprudenza si può affermare che in
situazioni di manifesti e perduranti disagi sanitari prodotti da un impianto
non risulta sufficiente, dalle esperienze sul campo delle varie Arpa, valutare
il progetto in termini “classici” di rispondenza tecnico impiantistica degli
impianti di abbattimento alle migliori Tecniche disponibili, ma anche e
soprattutto in termini di resa di abbattimento degli odori e che quindi occorre
individuare uno STRUMENTO che permetta agli Enti e all’azienda, il controllo ed
il monitoraggio degli odori una volta autorizzato il progetto, che non sia la
mera fissazione di un valore limite dei singoli inquinanti come invece viene
fatto nella recente AUA. Lo strumento può essere quello di fissare limiti in
unità odometriche (U.O.) e modelli di monitoraggio periodici delle emissioni odorigene
Questo obiettivo è confermato dalla nuova normativa
nazionale (DLGS 183/2017 che ha introdotto l’articolo 272-bis nel DLgs
152/2006) che conferma la necessità di imporre prescrizioni e limiti
di emissioni odorigene all’interno delle autorizzazioni alle emissioni anche di
impianti come quello in oggetto
Di fronte a tutto ciò, come già riportato in precedenza nel
presente esposto, la nuova AUA rilasciata in
data 7 luglio 2017 rimuove completamente la problematica delle emissioni
odorigene nonostante nella documentazione allegata si
ammette la non modifica dell’impianto rispetto al modello gestione
precedente.
A questo occorre
aggiungere, come già riportato in precedenza nel presente esposto, la
violazione sistematica del punto 8 delle prescrizioni della Autorizzazione alle
emissioni del 2010
ed ecco un articolo del 26/11/2019