IL RITORNO DALL’INFERNO DI
MITTELBAU- DORA.
Eugenio Caiani Nasce a Brugherio
il 10/11/1919.
Lui, il padre Pietro
Caiani e la madre Baracchi Luigina
ed i fratelli, vivono a Sant' Albino, in via Sant' Albino 21. Dopo i primi anni vissuti nella "corte" dove sono
nati il destino li porta a ricostituire la famiglia presso la sorella della
madre e si trasferiscono a Monza in via Zucchi 47. Successivamente
tornano nella "corte" di nascita a Sant' Albino (in territorio di Brugherio).
Eugenio è alla leva obbligatoria con la classe del 1919 nel
distretto di Monza, al 76° , matricola 7746. Viene poi lasciato in congedo illimitato
dal capo addetto Antonio Francesco
il 28/01/1939.
Il 20/03/1940 viene
richiamato e inviato al deposito del 3° raggruppamento di guardia militare alla
frontiera greco-albanese. Poi aggregato il giorno seguente, il 21/03/1940 per addestramento al 7° raggruppamento artiglieria
del corpo d’armata di Cremona dove prende contatto con i compagni che avrà al
suo fianco al fronte.
E' in territorio in stato di guerra alla frontiera greco-albanese l’11 Giugno 1940. Fatto artigliere scelto un mese dopo, l’ 1/07/1940. Dopo 4 mesi fortunatamente
passati indenni in territorio di guerra, fa il suo rientro in Italia il 17 Novembre 1940.
I destini di molti giovani in quel periodo si
incrociavano con gli eventi di guerra. A poche settimane dal suo rientro in patria il 18/12/1940 è inviato all' 8° raggruppamento del 3° Reggimento
artiglieri per l'addestramento e per le istruzioni sulle prossime missioni
militari. Due mesi più tardi, il 2 Marzo del
1941, con una colonna di mezzi militari si imbarca a Bari direzione Bastia, in
territorio albanese, per poi raggiungere Durazzo
il 4 Marzo del 1941. Rimane in servizio al corpo artiglieri sino a che il 30/11/1942 viene aggregato alla 2a
compagnia del 2° battaglione Genio Artieri per condotta autoveicoli in servizio
militare. Continua il suo percorso militare sulla frontiera albanese sino ad
arrivare in territorio greco i primi
giorni di settembre del 1943. Giunti all' 8 settembre 1943, alla proclamazione dell’armistizio, Eugenio
Caiani racconta di aver avuto un acceso
diverbio con il sottoufficiale addetto alla truppa, diverbio che cambiò da lì a poco il
destino della sua vita. Gli venne infatti negato il rientro in patria tramite traghetto
per Bari e di conseguenza fu costretto al rientro in treno. Il 9/9/1943 viene catturato e trattenuto
dai militari tedeschi nei pressi di Salonicco
sulla via per il suo rientro
in patria.
Questo perché l' 8
settembre 1943 è una data che segna la storia italiana
durante la seconda guerra mondiale. Dopo conflitti con gravi insuccessi, con
truppe armate e guidate male, poco tempo dopo lo sbarco delle truppe alleate in
Sicilia avvenuto il 9 Luglio del 1943, l’annuncio
dell’armistizio avrebbe dovuto portare finalmente l’Italia fuori dalla guerra,
voluta e condotta dal regime fascista al fianco della Germania nazista. In
realtà, anche a causa della dilettantesca gestione ad opera dei vertici
istituzionali e militari, l’8 settembre
fece precipitare il Paese nella feroce occupazione militare tedesca, nel lungo
e durissimo confronto tra eserciti stranieri lungo la penisola e nella cruenta
guerra tra italiani che fu a tutti gli effetti una “guerra civile”.
Infatti, quando il maresciallo d’Italia
Pietro Badoglio proclamò alla radio,
alle 19:42 dell’8 settembre,
l’ Armistizio concordato con gli Alleati, disse soltanto che da
parte delle nostre Forze Armate doveva cessare qualsiasi atto di ostilità
nei confronti degli Anglo-americani e che esse avrebbero dovuto reagire “ ad eventuali attacchi da qualsiasi altra
provenienza”. L’ovvio riferimento era alla inevitabile reazione
tedesca, ma nessuna precisa disposizione venne data ai nostri soldati che
furono colti di sorpresa, a differenza dei tedeschi stessi, che,
invece, avevano predisposto, già dal mese di luglio, un piano operativo per
occupare l’Italia e disarmare le Forze Armate Italiane anche fuori dei confini
nazionali.
Eugenio Caiani e altri compagni furono
catturati e disarmati al fronte. Vennero condotti dapprima nel campo di
Buchenwald, uno dei campi affidati
all'autogestione da parte dei "triangoli verdi", cioè i delinquenti
comuni. E questo fu il campo dove maggiormente fu sperimentato l'annientamento per
mezzo del lavoro. All'interno del campo furono trattenuti un grosso numero di
prigionieri di guerra russi. Oltre che nella costruzione del campo i deportati
furono utilizzati in ben 130 campi e sottocampi esterni. Alcuni detenuti erano
utilizzati come manodopera per gli stabilimenti della BMW.
In un secondo tempo Eugenio è
trasferito al sottocampo di Schonebeck. Dai racconti che fece al figlio Pietro si
salvò da morte certa per le sue capacità come meccanico e per essersi spacciato
anche come elettricista, qualità molto ricercate nei campi di lavoro militari. Per questo non fu destinato ai lavori più pesanti come gli scavi dei tunnel dove la
morte per sfinimento era all’ordine del giorno. In questo campo nello specifico
era addetto al trasporto dei missili V1 con carrelli spinti a mano su dei
binari di collegamento dei vari reparti.
La costruzione di un sottocampo chiamato con il nome Mittelbau Dora (campo di lavoro di Dora) era in fase di allestimento nell’estate del 43. Era un campo destinato allo sviluppo e alla costruzione del missile A4, conosciuto in seguito con il nome di propaganda “V2”, come arma del terrore, costruito sino ad allora presso il centro di ricerca dell’esercito di Peenemünde, su di un’isola nel Mar Baltico.
Un pesante
attacco aereo da parte della Royal Air Force del 18 agosto 1943 porta a una brusca interruzione della produzione dei
V2 a Peenemünde. Con il bombardamento della cittadina i comandi nazisti non
hanno altra scelta che spostare l’impresa per l’assemblaggio dei missili V1 e
V2 in una regione meno esposta ad attacchi aerei angloamericani. La scelta
ricade sul sistema di tunnel appartenenti alla società di ricerca economica
sul Monte Kohnstein vicino a Nordhausen in Turingia. I primi deportati vengono
li trasferiti il 28 agosto 1943. Molti di loro morirono per il freddo, la fame, la sete e il durissimo
lavoro.
Nel gennaio del 1944 il processo di costruzione delle gallerie è in stato avanzato a tal punto, che l’assemblaggio dei missili V1 e V2 sta per iniziare. Alla fine di gennaio l’impresa consegna i suoi primi tre missili. Soffrono però tutti di gravi difetti di produzione. Le SS considerano i prigionieri, che si sono occupati dell’ampliamento dei tunnel nell’ autunno e nell’ inverno 1943-44 come inutilizzabili per l’assemblaggio dei missili in quanto non qualificati e stremati per il troppo lavoro dei precedenti mesi e di conseguenza costoro verranno sterminati giorno per giorno e sostituiti con nuovi prigionieri che vengono portati da altri campi di concentramento. I nuovi prigionieri provengono da tutta Europa, soprattutto da Unione Sovietica, Polonia e Francia, deportati per motivi politici. Sono trasferiti qui anche circa 1.600 italiani. Tra di loro circa la metà erano
IMI (Internati Militari Italiani) trasferiti qui andando contro ogni convenzione internazionale sui prigionieri di guerra. Per essere più chiari questi uomini non saranno mai considerati prigionieri di guerra ma hanno attribuito loro l’inedito status di Internati Militari. Le ragioni di questa scelta di Hitler furono diverse. La prima fu puramente formale ed ipocrita: dato che in Italia nel frattempo era stata creata la Repubblica fascista di Salò, alleata della Germania e che si poneva in continuità rispetto allo Stato italiano fascista non era ammissibile trattenere come prigionieri di guerra i militari di uno Stato alleato della Germania. Ma ovviamente le motivazioni ben più sostanziali e importanti erano quelle che sostenevano questa decisione: i tedeschi consideravano gli italiani “traditori” perché il governo italiano aveva siglato un armistizio con gli anglo-americani. Erano perciò animati da uno spirito di vendetta che li spinse a non riconoscere ai militari italiani, ricorrendo all’espediente della nuova dicitura " internati", la tutela e l’assistenza dovuta come i controlli della Croce Rossa Internazionale, previsti dalla Convenzione di Ginevra del 1929, sottoscritta anche dalla Germania, per i "prigionieri" di guerra ma non per gli "internati ". La derubricazione da “prigionieri” a “internati” implicava la sottomissione dei deportati a un regime giuridico non convenzionale e gli “internati” venivano a trovarsi in un limbo giuridico legato all’arbitrio totale di Berlino. Il 20 novembre 1943, infatti, il responsabile tedesco respinse le richieste della Croce Rossa Internazionale di poter assistere gli internati perché essi non erano considerati prigionieri di guerra ma internati. Infine, ecco un ulteriore fondamentale motivo per l’adozione del termine e della condizione di IMI (internato militare italiano): le autorità del Terzo Reich vedevano nella cattura di centinaia di migliaia di italiani una preziosa risorsa di manodopera sfruttabile a piacere .
Nei tunnel in allestimento le condizioni di lavoro dei prigionieri erano inimmaginabili. Regnava il terrore. Nel dicembre del 43 i deceduti sono oltre 600. Le SS picchiano con manganelli rivestiti di gomma. I moribondi dei pestaggi vengono gettati sui mucchi dei cadaveri e dopo poche ore spirano definitivamente. Tra il dicembre del 43 e il gennaio del 44 è così elevato il numero dei morti che nelle gallerie si spande un odore nauseabondo. Soltanto il 22 marzo del 44 sarà terminata la costruzione del forno crematorio e anche quell’ultimo atto, ovvero la riduzione in cenere dei cadaveri, potrà svolgersi "in casa”. Completato il forno e l’ampliamento delle gallerie il lager di Mittelbau-Dora diventa un campo di concentramento tradizionale con filo spinato elettrificato e con caserme poco distanti dall’entrata sud del tunnel B. Una cinquantina di baracche destinate agli internati, con letti a castello e latrine. Ora il lager è a tutti gli effetti autonomo.
Alcune delle atrocità perpetrate nella fabbrica di Dora in costruzione sono giunte ai nostri giorni solo grazie alle testimonianze e ai racconti di chi in quell’inferno ci è passato e lo ha vissuto, come Francesco Ghisiglieri di Alessandria, matricola n°03187, classe 1922, del 4 reggimento del Genio, compagnia telefonisti. Egli racconta, in una testimonianza scritta rilasciata il 21 gennaio del 1995 ad Alessandria, nella quale cita anche la presenza dell'amico Eugenio Caiani, poi riportata anche sul libro “ Gli schiavi di Hither ” quanto segue:
"Un mattino, nel dicembre del 43, alla fine del turno di notte, anziché lasciarci andare in baracca, ci fanno sostare sul piazzale dell'appello. Quando ci ordinano un dietro-front scorgiamo subito tre forche dell'impiccagione pronte per ľ uso. Tra di noi si commenta ormai rassegnati alla quasi quotidiana pratica da parte delle SS ai sospettati di sabotaggio: «Quanti saranno oggi?». Uno dice10, l'altro 15-20. Alla fine io ne ho contati 48, il mio amico Eugenio Caiani 50, altri 54. Le SS per impiccarli mettevano il cappio al collo del condannato e un tampone in bocca. Poi facevano salire il disgraziato su uno sgabello, cosi il boia delle SS gli dava un calcio rovesciandolo, ed era la fine. Per le impiccagioni in galleria con le gru o con i montacarichi non ci distoglievano dal lavoro ma quando accadevano (quasi ogni giorno) alla fine del turno o all'inizio dello stesso vedevamo gli impiccati con un cartello sul torace e la scritta «Sabotage» (sabotatore) penzolare dalle gru e dai montacarichi. Un mio compagno che dovette assistere a entrambe le impiccagioni mi disse una volta: «Per morire impiccati è meglio la forca semplice con uno sgabello, in un attimo è tutto finito. Con le gru e con il montacarichi non finisce mai è una sofferenza atroce."
Il tempo passa i preparativi delle gallerie preposte all’assemblaggio dei missili V1-V2 sono pronte , il 1 ottobre 1944 Eugenio Caiani invia una lettera a casa degli zii, nella quale scrive:
“con la speranza di ottenere risposta ..come sapete tutti gli Italiani sono passati umili lavoratori o meglio liberi lavoratori, però Eugenio come al solito è fortunato come un cane in chiesa visto che lavoro in una fabbrica militare, sono più prigioniero di prima. Voglio sperare che almeno Giulio (il fratello maggiore) sia libero, dal momento che io non lo posso essere, continuerò cosi fino alla fine con l’angelo custode e i reticolati. Grazie a Dio la salute è abbastanza buona. A giorni credo dovrò cambiare campo, spero di migliorare ma ne dubito. Sono tanto fortunato. Pacchi non ne ho più ricevuti. Di nuovo vi assicuro della mia buona salute, vi saluto e vi abbraccio tutti, Eugenio.”
Il campo nel quale Eugenio attendeva di essere trasferito era il campo di Dora, il peggiore che potesse capitare. Due giorni dopo l’invio della lettera avvenne il trasferimento. Con lui c'è anche l’amico Francesco Ghisiglieri. Dopo varie peripezie e punizioni e una sosta al campo di Schonebeck Francesco ritrova Eugenio e vede per la prima volta quel pezzo di V1 su cui poi dovrà mettere le mani quasi per un’anno. Lì gli viene insegnato a piombare le cannelle in cui circola l’aria compressa da una sfera all’altra e con lui lavora Eugenio Caiani che in quel campo già era addetto al trasporto su carrelli dei missili V1.
Le azioni di sabotaggio si effettuano in alcune fasi della lavorazione. Nel lager di Dora si era formata una cellula di resistenza guidata da ex deputati comunisti di nazionalità polacca e francese che si erano messi al comando di alcuni connazionali. La prima preoccupazione di questa cellula consisteva nel piazzare prigionieri che durante la vita civile erano ingegneri elettronici e tecnici della corrente, nei settori finali dell’assemblaggio dei missili, in modo da poterli manomettere dopo l’effettuazione delle prove e dei controlli da parte dei responsabili tedeschi.
Altri gruppi distruggevano alcuni preziosi ugelli (componenti dei missili) resistenti al fuoco, altri ancora dirottavano in posti diversi a quelli a cui erano destinati alcuni pezzi che arrivavano da montare, creando così confusione e disordine che causava ritardi sulla produzione.
Da un’altra testimonianza di Francesco Ghisiglieri sappiamo che lui e Eugenio Caiani, sono destinati al gruppo Sawatzki, rappresentante di Von Speer ovvero l’architetto del terrore a Dora. "Il Kapò del gruppo è un giovane tedesco umanamente gentile ("penso che prima della evacuazione" dichiara Ghisiglieri "sia stato ucciso dalle SS assieme a tutti i Kapò con un colpo alla nuca" ). Il reparto dove lavoriamo si trova credo nella galleria B, 400-500 metri dopo l’ingresso. Era un grande salone sulla sinistra del tunnel principale, che era percorso da binari sui quali circolavano vagoni ferroviari .
Il salone oltre a contenere i carrelli dei missili V1, conteneva anche cataste di sfere metalliche da montare sui missili. Sia il salone che i tunnel erano illuminati a giorno e pulitissimi. Nel mio reparto di Italiani c’eravamo soltanto io e Caiani più due deportati francesi. L’affusto (il corpo della bomba) della V1, arrivava sul carrello con 2 sfere già fissate all’interno. Io e Caiani dovevamo collegarle con delle cannelle di metallo che chiamavamo “budelle”, piombare i dadi di collegamento e caricare ogni sfera con 250 atmosfere di aria compressa. Finito il lavoro, il pezzo passava nella zona dei Francesi. Quante ne abbiamo sabotate insieme ai Francesi? Non lo so quantificare.
Sul lavoro tutto il reparto era sorvegliato da ufficiali delle SS che andavano avanti e indietro in continuazione. Da fine gennaio del 1945 nel tunnel e nei saloni di assemblaggio andavano avanti e indietro anche molti civili tedeschi. Probabilmente tra questi c’era anche Von Braun, capo della sezione missilistica tedesca reduce dal centro ricerca militare di Peenemunde.
L’immagine sopra mostra un missile V1 trasportato dai prigionieri sui carrelli da un reparto all'altro dei tunnel. Poi un gruppo di internati impegnati all'assemblaggio di altre componenti belliche.
In questa immagine invece si può vedere l’interno di un missile V1 ,al centro si notano le 2 grosse sfere metalliche al disopra delle quali si vedono le “cannelle ” descritte (tubi per alta pressione) chiamate in gergo ” budelle ” che Eugenio Caiani e Francesco Ghisiglieri hanno il compito di piombare (saldare), contenenti grandi quantità di aria compressa ad alta pressione. Alcune altre piccole parti essenziali del missile vengono sabotate dagli operai per indurre un malfunzionamento al momento del lancio. Il tutto a rischio e pericolo per la loro stessa vita.
In quel periodo la Gestapo sospettava della cellula di sabotatori ed aveva ordinato ad una ditta civile di istallare un costoso impianto di aria condizionata. Poi arrivarono bidoni di Zyclon B, ovvero il gas usato per eliminare milioni di persone nelle camere a gas e contemporaneamente fecero sigillare con strisce di gomma tutte le porte d’acciaio di ingresso ai tunnel. Era un chiaro segnale e un terribile monito per tutti. Prima o poi l’intero gruppo di sospettati verrà gasato.
Tempo dopo Francesco Ghisiglieri racconta di un’altra terribile esperienza che lui e l’amico Caiani dovettero vivere in quel periodo infernale della loro vita. "Sia negli altri campi sia a Dora, anche con 20 gradi sottozero, non ho mai avuto neanche un raffreddore- racconta Francesco - L'unica volta che sono stato male è perché una sera, mentre stavo mangiando la zuppa prima di andare in galleria per il turno di notte, vidi arrivare due camion carichi di cadaveri che vennero ribaltati quasi contro la parete della baracca. Due uomini con in mano martello, tenaglie e divaricatori rivoltarono tutti i cadaveri con la faccia in alto, aprirono la bocca ai morti e strappavano denti alla ricerca di protesi d'oro. Per paura d'avere dimenticato qualche cadavere ripeterono l'operazione una seconda volta. Quella notte in galleria mi venne la febbre. Con l'aiuto dell'amico Caiani e dello «Schreiber», lo scrivano, venni portato nell'infermeria. Mi fecero ingoiare due pastiglie e mi fecero sdraiare. Non sono in grado di dire quanto tempo era trascorso quando udii delle voci che chiedevano chi fosse il ricoverato. Sentii qualcuno che rispondeva: «Spezialist. Prominent Italiener». Mezz'ora o un'ora dopo lo Schreiber mi svegliò e mi chiese come mi sentivo. Gli risposi che mi sentivo meglio e lui aggiunse: «Andiamo via, è già passata la Gestapo». Compresi allora che era meglio lavorare con la febbre che finire al Revier (infermeria finale )”.
….il racconto continua.